Del più famoso poeta bucolico antico – Teocrito – è possibile oggi come oggi trovare una grande varietà di edizioni, comprese anche quelle rivolte ai non specialisti. Lo stesso non può dirsi dei due cosiddetti ‘bucolici minori’, Mosco di Siracusa e Bione di Smirne, perlomeno in lingua italiana (mi risulta fuori commercio e di difficile reperimento l’edizione completa dei bucolici greci di O. Vox, UTET 1997). A colmare questa lacuna è arrivato, graditissimo, il volume Il canto e il veleno. Bucolici greci minori a cura di Francesco Bargellini (docente di materie classiche e poeta), con prefazione di Alessandro Fo, uscito per InSchibboleth Edizioni nel 2021 – primo titolo della collana Classici smarriti diretta da Tommaso Braccini. Questo agile ed economico volumetto (pp. 160, €16), avvicinerà (si spera) al pubblico non specialista una serie di componimenti degni di nota e ingiustamente trascurati e sarà senza dubbio gradito anche agli addetti ai lavori.
Ma chi sono questi due ‘bucolici minori’? Partiamo subito da due considerazioni. La prima è che, come spesso accade con autori antichi di cui sopravvive poco, l’etichetta di ‘minori’ è valida solo come convenzione moderna. Se è vero che autori come Virgilio hanno consacrato Teocrito come il sommo bucolico, non possiamo speculare troppo sulle vette poetiche raggiunte da questi autori per noi evanescenti. L’altra notazione, che Bargellini presenta opportunamente in sede d’introduzione (pp. 22-24), è che questi due autori, in realtà, di bucolico hanno ben poco – sempre stando a quanto possediamo della loro opera. Intravediamo qua e là elementi bucolici, come la cornice dei pastori che raccontano di Achille e Deidamia in un frammento attribuito (dubbiamente) a Bione, ma mancano le cifre distintive della bucolica teocritea, poi ricalcate da Virgilio, ossia il protagonismo dei pastori e del loro canto. Il canto (in senso lato), però, naturalmente c’è e l’editore l’ha voluto appaiare nel titolo al veleno, con riferimento alla presunta morte per avvelenamento (volontario?) del poeta Bione e a un certo qual gusto macabro che emerge in componimenti come l’Epitafio di Adone bioneo: giusto per dare un esempio, “Giace Adone bello sui monti, alla bianca sua coscia da bianca / zanna ferito, nel dolore di Cipride / spira pian piano, il sangue suo nero si sparge / sulla carne di neve, gli occhi si appannano sotto la fronte, / fugge la rosa del labbro, su lui / muore anche il bacio che mai coglierà Cipride” (vv. 7.12).
Joshua Cristall (1767-1847), Arcadian Shepherds by a pool (Wikimedia Commons)
Per il resto, le due figure sono abbastanza sfuggenti. Mosco fu forse allievo del filologo Aristarco di Samotracia (ca. 215-140 a.C.). Di lui ci sono pervenuti un epillio Europa, che narra il rapimento della donna da parte di Zeus in forma di toro – mito popolarissimo nell’antichità (e immortalato oggi nella moneta da due euro del conio della Repubblica ellenica) – con una sofisticata struttura di gusto tipicamente ellenistico, ricca di giochi d’incastri, simmetrie e momenti ecfrastici; un poemetto Eros fuggitivo, in cui la madre del fanciullo, Afrodite, bandisce una ricca ricompensa per chi le riporterà il mascalzone che – avverte la dea – è molto pericoloso nonostante la sua taglia, visto che le sue frecce arrivano fino al cielo e fanno innamorare persino gli dei. Rimangono poi dei frammenti (alcuni dei quali non è neanche sicuro che siano frammenti), inclusi anch’essi nella presente edizione. Non vengono più ritenuti opera di Mosco oggi l’Epitafio di Bione, omaggio all’altro ‘bucolico minore’, e un poemetto Megara, dialogo fra Megara e Alcmena su Eracle e che dunque Bargellini colloca in una sezione di ‘anonimi’ in coda al volume.
Bione, che si ritiene di solito posteriore cronologicamente a Mosco, è autore del sopracitato Epitafio di Adone, un poema di 98 versi che lamenta la morte di Adone, l’amato di Afrodite, con un patetismo velato di un ‘macabro compiacimento’ e quasi-necrofilia, per usare formule rispettivamente di Bargellini e di Vox (p. 28 con nota 65). Rimangono poi 17 frammenti tràditi quasi tutti dall’antologista Stobeo (V secolo d.C.), in cui la tematica erotica è preponderante. Non è certa l’attribuzione a Bione del cosiddetto Epitalamio di Achille e Deidamia, giuntoci incompleto. Un discepolo di Bione, poi, ha composto probabilmente nel I secolo a.C. un Epitafio di Bione per il suo maestro, incluso di solito nelle antologie bucoliche moderne e da Bargellini nella sezione di carmi anonimi. In questo componimento, la morte di Bione viene pianta sulla scia del suo Epitafio di Adone e una teoria di divinità bucoliche ed elementi naturali piangono il poeta, appropriandosi del suo spiccato patetismo e immergendolo nel suo mondo bucolico. Chiude poi l’antologia di Bargellini l’anacreontica Per Adone morto, un carme di 46 versi eptasillabi.
Chi si avventura in questi terreni meno noti troverà immagini vivide e memorabili: la cavalcata di Europa col peplo ‘come vela di nave’ sul dorso del toro divino al suon dell’orchestra marina dei Tritoni ‘auleti del mare’ in processione assieme alle Nereidi e Poseidone (Europa); la preghiera di Afrodite al suo amante moribondo Adone – “svegliati un poco, Adone, e baciami per l’ultima volta, / baciami tanto quanto dura il bacio vivo, / finché tu spiri nella mia bocca e nel mio cuore / ti coli il respiro, che io sprema il tuo dolce filtro, / che io beva intero l’amore e questo bacio io vegli / come Adone stesso…” (Epitafio di Adone, vv. 45-50), riecheggiato poi nell’omaggio dell’allievo di Bione (“piangono gli Eroti a lutto accanto alle tue spoglie / e ti bacia Cipride più che il bacio / che baciò prima Adone quando questi moriva”, Epitafio di Bione, vv.67-69); e il dolore scomposto di Megara che si tinge di pallide tinte bucoliche quando piange ‘lacrime più spesse di mele’ e viene chiamata ‘mio ramoscello’ dall’altrettanto affranta nuora Alcmena (Megara, versi 56 e 81).
Ora, la poesia bucolica è notoriamente uno dei sotto-generi più influenti della poesia greca, anche tramite l’intermediario latino, e a questo Fortleben Bargellini dedica delle belle pagine nell’introduzione (pp. 34-44), spaziando tra Sannazaro, Tasso, Goethe, Leopardi traduttore di Mosco, le IX Ecloghe di Zanzotto e le Bucoliche (al telescopio) di Alessandro Fo. In queste pagine si specula anche sui motivi della fortuna del mondo bucolico, ma sarebbe altrettanto interessante speculare, al contrario, sul motivo della poca fortuna di questi ‘bucolici minori’: sicuramente ha giocato un ruolo quel gusto spesso definito ‘decadentista’ e ‘barocco’ che pure Bargellini menziona (p. 28); lo stato frammentario della documentazione, poi, spesso non aiuta. Coltiviamo dunque la speranza, auspicata in apertura di recensione (e di un ottimismo forse viziato dai gusti ellenistici di chi scrive), che questa edizione faccia la sua parte. Ce ne sono tutte le condizioni: la traduzione elegante, da cui trapela la sensibilità poetica di Bargellini, i cui pregi sono enucleati da Fo in chiusa di prefazione (pp. 15-18); lo sloggiamento delle note dal piè di pagina a fine volume, spesso sgradito agli studiosi (che però non avranno da ridire in questo caso sull’esaustività delle note), ma sicuramente più allettante per i non specialisti che ci auguriamo di adescare; infine, la scelta di tradurre ‘linea contro verso’, che risponde sì a una precisa volontà traduttologica, ma che compiacerà anche chi un po’ di greco lo mastica e vorrà fare dei raffronti. Leggetene tutti, dunque: il canto e il veleno sono serviti.